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    Da bambina l’unica cosa che mi faceva provare gioia era correre. Correvo a braccia aperte, come fossi un aeroplano, con il vento che soffiando leggero scompigliava i miei lunghi capelli ricci sciolti, lungo le strade periferiche di Herera, la mia città natale.
    L’ingenuità mi guidava entro i luoghi più sconfinati della mia immaginazione: ciò che i miei occhi vedevano la mente trasformava a seconda del momentaneo guizzo di fantasia. Non attraversavo a piedi nudi strade sterrate, ai cui margini si estendevano decine e decine di baracche in legno, alternate a bancarelle semi-vuote di alimenti oramai andati a male, in pieno processo di putrefazione. No. Avevo deciso di escludere la realtà dal mio mondo. I pensieri, spinti dall’energia del mio esile corpo in movimento mi conducevano attraverso una vita parallela in cui tutto era come avevo sempre desiderato fosse: rotolavo lungo enormi distese di prato sulle quali fiorivano timidi i primi germogli primaverili, sotto un cielo azzurro, privo di quell’alone grigio di tristezza.
    Amavo correre perché amavo immaginare di essere felice.
    Abitavo un quadrato di terreno limitato da tre muri alti circa due metri, coperti in alto da un ampio telo che fungeva da tetto e da quarta parete mancante.
    Non era la casa nella quale avrei voluto trascorrere la mia infanzia, ma almeno le basi erano state costruite, in prevalenza, da mattoni, un solido riparo nelle poche giornate di pioggia in Africa.
    Lo spazio non costituiva un reale problema: la cucina può non servire in assenza di qualcosa da mangiare che richiede cottura e il soggiorno diventa una stanza vana e vuota se non si possiedono mobili e divani con il quale arredarla.
    Io mi accontentavo del poco materiale che avevo: per soddisfare le mie mancanze ricorrevo al portale dei sogni.
    Ho avuto la sfortuna, se così la si può definire, di essere nata nello Zimbabwe, uno tra i Paesi più poveri al mondo, ma ciò mi ha permesso di ottenere la capacità di essere emotivamente “invincibile” perché quando si è coscienti dei limiti che la vita impone, non esiste niente che possa fare più paura di questi stessi, ed io ho imparato a convincerci.



    Mia madre era una donna bellissima. Aveva lunghi capelli scuri e mossi, un po’ come i miei, carnagione mulatta, piccola, ma proporzionata statura e lineamenti del viso così delicati da sembrare, agli occhi della gente, un’adolescente, non una donna.
    Ha scelto di imboccare la via della prostituzione per necessità: la mia minuscola corporatura, a causa di una prematura nascita, richiedeva una quantità di latte che le sue mammelle, come unica fonte di sostentamento, non erano in grado di soddisfare.
    Ha scelto di sacrificare la sua vita nella speranza di poter dare un futuro alla mia.
    Li ho persi a causa dell’aids. I miei genitori sono volati in paradiso, o almeno cosi mi piace credere, quando avevo solo sei anni. Ero troppo piccola per restare sola, troppo ingenua per difendermi dalle ingiustizie del mondo e troppo fragile per smettere di essere amata.
    Amavo i miei genitori, come si ama la mattina di Natale, o il sole che ti sveglia al mattino e la luna che ti sorveglia durante la notte.
    Di mia madre adoravo la dolcezza con la quale mi districava i capelli prima di mettermi al letto, la stessa con la quale dopo mi cantava lunghe ninna-nanne e l’amore con il quale mi nutriva. Ho sempre pensato che sia stato quest’ultimo a salvarmi.
    Mio padre morì pochi mesi dopo mia madre, ma era andato via con lei molto tempo prima. La malattia li aveva uniti proprio come aveva fatto l’amore, quest’ultimo però, gli aveva permesso di compiere il loro ultimo viaggio insieme, impossibilitati dal vivere l’uno lontano dall’altra.
    Era il tipico uomo africano: energico nel corpo e nello spirito, nonostante la mancanza di acqua e il duro lavoro dei campi.
    Spesso mi assale nitido il ricordo dei suoi abbracci, delle infinite volte in cui sollevandomi e tenendomi stretta tra le braccia mi faceva volare sempre più in alto, e di tutte quelle in cui la sera, tornando da una lunga giornata di lavoro, ancora stanco e sudato, mi offriva soddisfatto un pezzo di quel pane cosi duramente guadagnato: gli si illuminavano gli occhi quando mi vedeva saltellare felice ,quasi avessi ricevuto una barretta di cioccolata.
    Ai miei occhi l’immagine dei miei genitori appare sbiadita, come una fotografia cancellata dal trascorrere incessante del tempo eppure i loro gesti sono cosi vivi da poterli percepire ancora oggi sulla pelle.

    Le giornate all'orfanotrofio si susseguivano identiche, scandite da precisi intervalli ricreativi e di intrattenimento, come le note di una canzone che si ripete sempre con lo stesso ritmo.Ogni giorno era una copia gemella del precedente e la mia vita sembrava finalmente aver ripreso una forma definita, conferitale dalla ripetitività e quotidianità degli eventi.
    L'istituto non era fisicamente ospitale: le pareti un tempo bianche avevano assunto, col passare degli anni, un colorito giallastro,l'erba del piccolo giardino era incolta e l'odore che si respirava all'interno della struttura era acre,come se le finestre non fossero mai state aperte per lasciar passare un filo d'aria fresca.
    Ovunque voltassi lo sguardo vedevo qualcuno, poco importava se si trattasse di una figura adulta ,quale quella di una delle tre o quattro suore che ci accudivano, o di un bambino: era la loro presenza a rincuorarmi.
    Quando i miei occhi si soffermavano su tutto ciò che mi circondava sentivo un senso di pienezza, come se avessi colmato il desiderio di trovare una casa; era dentro di me che avevo paura di guardare perchè in fondo sapevo che le suore non erano i miei genitori e i bimbi non erano miei fratelli: quella non era casa mia e non lo sarebbe mai stata.
    Per tutto il tempo della mia permanenza in orfanotrofio mi sono sempre sentita come una bussola senza ago: ero consapevole di dover iniziare a dare di nuovo un senso a tutto, ma non avevo gli strumenti per farlo:mi ero smarrita e non riuscivo più a trovare una qualsiasi direzione da percorrere.
    Mi domandavo spesso, guardando le faccie allegre e sorridenti dei miei compagni d'avventura,come loro riuscissero a saltellare sul prato tra urla e sonore risate, quasi indifferenti al fatto di essere state vittime dell'ingiustizia dello stesso mondo che gli aveva dato la vita.
    Mi considerai stupida quando non molto tempo dopo seppi dare una risposta ai miei dubbi: il dolore non si dimentica, eppure loro, forse più di me, avevano imparato a convinverci, per impedire a quest'ultimo di privare ancora di momenti felici la loro adolescenza.
    Io invece, silenziosa e solitaria, impiegavo la maggior parte del mio tempo giocando con una bambola di pezza dai capelli scuri e mossi e dagli occhi nero-bottone. L'avevo chiamata Bejide perchè mi ricordava mamma. Amavo credere che ovunque lei si trovasse sapesse che in ogni mio pensiero si rispecchiava il suo volto e che mi proteggesse allo stesso modo di cui io mi prendevo cura della mia bimba di pezza.
    L'orfanotrofio mi cambiò dapprima in ciò che di me era più visibile: la fisionomia. I pasti caldi e sicuramente più nutrienti di quelli a cui ero stata abituata permisero alle mie guancie di riempirsi di carne e colore e al mio stomaco, libero del gonfiore dei digiuni, di impossessarsi gelosamente delle proteine e dei carboidrati contenuti nelle zuppe di riso e legumi.
    Rimasi "ospite" dell'istituto per circa un anno, fin quando una coppia di sposi, stranamente in viaggio di nozze nel mio Paese, non decise di adottarmi.
    Era una torrida giornata di agosto quando li conobbi. Ricordo solo che non appena suor Mercy mi chiamò per scendere in sala visite pensai che finalmente i colori dell'estate avrebbero dipinto la mia vita,che avrei visto il mare o la montagna, che avrei avuto una casa e magari un cane, che poi sarei andata a scuola...
    I pensieri smisero di vagare frettolosamente nella mia testa non appena li vidi. Erano decisamente diversi da come li avevo immaginati: la loro pelle, seppure abbronzata, era di parecchie tonalità più chiara della mia e i loro abiti, sicuramente alla moda, avevano colori accessi, riflesso della loro giovane età.
    Anna era una donna di una bellezza mediterranea. Aveva lunghissimi capelli mori e grandi occhi castani con i quali comunicava la voglia di stringermi a sè. Corsi, come mai avevo fatto, e mi gettai tra le sue braccia che, senza tradire la mia fiducia, mi sollevarono e mi avvolsero. Marco si limitò a baciarmi dolcemente la mano, prima di stringere entrambe in un caloroso abbraccio.
    Non so perchè tra venticinque bambini abbiano scelto proprio me: mi piace pensare che ognuno di noi abbia colmato nell'altro il desiderio di trovare la figura mancante della propria vita, e che abbia cercato di ricomporre un puzzle, dal nome "famiglia".

    La prima volta che vidi la mia nuova casa strofinai le mani sugli occhi per accertarmi che la vista non mi fosse repentinamente venuta meno durante l'interminabile viaggio dallo Zimbabwe sino in Italia.
    Il giardino sconfinato e ornato da molteplici varietà di piante faceva da sfondo a quella che sarebbe diventata la mia definitiva abitazione. Non furono i due piani a stupirmi, ma la sua estenzione e la quantità di camere che la costituivano: c'erano 4 camere da letto, di cui la mia già accessoriata di scrivania, televisore e giochi vari,3 bagni, la cucina, il soggiorno ed anche la palestra.
    Posso affermare con certezza che non fu per niente difficile ambientarmi in un luogo così curato: chiunque si sarebbe sentito a proprio agio.
    I primi giorni di scuola furono imbarazzanti. Era snervante percepire lo sguardo di tutti gli altri bambini su di me: ero consapevole che la mia pelle e il mio accento inglese avrebbero richiamato l'attenzione, ma mi feriva il fatto di essere considerata diversa.
    Tuttavia riuscii presto a trovare una mio personale ordine: feci subito amicizia con alcune stravaganti bambine e mi diedi parecchio da fare per imparare l'italiano.
    Per anni ho vissuto così, amata e rispettata, in una casa incantevole e senza nessuna mancanza materiale. Non mi rendevo conto di quanto avevo perchè per me era tutto una scoperta, dall'acqua calda della doccia alla bicicletta ricevuta per la promozione, dal grembiule a scuola alle "Nike" rosa ai piedi.
    Il mio nuovo mondo non aveva più bisogno dell'immaginazione:ciò che gli occhi vedevano la mente riconosceva e i sensi apprezzavano. Ebbene si, non mi mancava niente.
    Pensavo spesso ai miei genitori naturali, custodendo gelosamente tutti i ricordi che mi legavano a loro. Questa casa, questo cielo, questa realtà: avrei tanto voluto che loro ne facessero parte perchè avrebbero meritato anche solo un pizzico di felicità dopo tutti i sacrifici che hanno fatto per me.
    Ho tutt'ora il presentimento di aver vissuto due esistenze in una, come se per me il destino abbia fatto un'eccezione, donandomi la possibilità di condurre due vite diverse in un'unico filone temporale.
    Sono stata figlia due volte: la prima di una donna che nonostante la povertà e la miseria ha deciso di mettermi al mondo per potermi amare incondizionatamente, e la seconda di una ragazza che mi ha strappato ad una vita di infelicità e mi ha permesso di averne una normale, senza vuoti materiali nè sentimentali.
    Sono stata cittadina di due terre completamente diverse, in una delle quali crescevano altissimi e fieri alberi di bambù e palme, su uno strato di terra e sabbia dorata.
    E sono stata bambina. Una bambina che come Mary Poppins ha portato nella sua valigia tutta la sua creatività e la sua inventiva, prima di acquistare il biglietto di un'aereo che avrebbe decollato sulla pista dell'adolescenza e della maturità.

    In occasione del mio diciottesimo compleanno ho chiesto ad Anna e Marco di non organizzare alcuna festa vistosa ed eccentrica in discoteche o locali alla moda, ma di regalarmi la possibilità di andare a far visita ai miei genitori, in Africa.
    Per un brevissimo istante di tempo ho percepito il panico nei loro occhi, che solo in un secondo momento, umidi e inteneriti dalla mia richiesta, hanno dato cenno di approvazione.
    Ebbene si, esattamente il giorno successivo al compimento del mio diciottesimo anno di vita, ero già in volo alla ricerca delle mie origini, alla scoperta della mia terra,con l'ineffabile certezza che questo viaggio avrebbe dato delle risposte a remoti interrogativi.
    Non appena arrivata mi sono diretta in quell'unico luogo in cui mi sono sempre voluta trovare dopo la morte dei miei genitori e nel quale non sono mai stata portata.
    Il cimitero era deserto: ero completamente sola,non tenendo ovviamente in considerazione le migliaia di anime che stavano lì, silenziose, a tenermi compagnia.
    Mi ci volle un ora piena per trovare le croci di legno sulle quali erano incisi i nomi dei miei familiari, e nn appena le ebbi davanti agli occhi, la tensione si sciolse e lasciò spazio ad un'improvvisa,inaspettata e profonda commozione.
    Mi sedetti sulla nuda terra che ricopriva i loro corpi e gli parlai, come se realmente fossero in grado di sentirmi. Parlai loro della mia vita dall'orfonatrofio in poi, di Anna e di Marco e della loro disponibilità nel prendersi cura di me come una figlia, di tutti i momenti che loro si erano persi e di come io mi sentissi persa dopo la loro assenza.
    Rimasi così, immobile, fino a quando non ebbi più parole da pronunciare, fino a quando quel maledetto nodo tornò a cingermi la gola e l'emozione diede sfogo alla sofferenza repressa.
    Pensavo di essere stata la causa della loro morte, ma forse la mia nascita anticipata, dalla quale deriva il mio nome, "khadija", può essere interpretata come un dono, che mi ha consentito di godere della presenza dei miei genitori trenta soli di più.
    La mia vita è stata tutta una corsa. Ho avuto fretta nel nascere, ho dovuto imparare a crescere in fretta per trovare una guida in me stessa e tutt'ora vado di fretta, correndo sulle strade asfaltate della mia città con le scarpe sportive ai piedi, immaginando di realizzare i miei sogni sconfinati e ancora irraggiungibili.
    se c'è una cosa che ho imparato dalla mie esperienze è che la vita è semplicemente frutto di un gesto d'amore, del quale io non sono mai stata privata. Sono stata amata, lo sono tutt'ora.L'ago della mia bussola è finalmente orientato verso la felicità.
  2. .
    La pioggia cominciava a cadere lenta e leggera. Amava la pioggia e se ne stupiva. L’aveva sempre odiata, fin da bambina. Le si arruffavano i capelli e i vestiti le si appiccicavano al corpo. Poi un giorno cominciò ad amarla, senza un vero motivo. E adesso, mentre percorreva gli ultimi cento metri che la separavano da quella che era stata la casa dove aveva vissuto la sua infanzia, le piaceva la sensazione di una carezza invisibile che le procuravano le gocce ogni volta che sfioravano il suo viso. Erano anni ormai che nessuno le faceva una carezza. Quel segreto che si teneva dentro aveva allontanato l’amore della sua vita, i suoi amici, e poi, persino i suoi genitori. La solitudine era diventata la sua unica compagna di vita, ma a lei stava bene così. Non riusciva a provare sentimenti, si era obbligata a non farlo. Aveva preso le sue emozioni e le aveva imprigionate in un angolo remoto della sua mente. Ogni volta che una di esse cercava di liberarsi, metteva le cuffie, accendeva l’i-pod e cominciava a correre. Correva, senza sosta, finchè le gambe si rifiutavano di andare avanti. Allora, esausta, ritrovava il controllo di se stessa. Ritornò alla realtà solo quando si trovò davanti alla casa dei suoi genitori. Perché aveva promesso di andarli a trovare? Perché volevano a tutti i costi far parte della sua vita? Era stanca. Non aveva voglia di passare la serata imprigionata tra inutili conversazioni. Avrebbe voluto rimanere a casa, sotto le coperte, a guardare la tv, in compagnia di una vaschetta di gelato al cioccolato, il suo preferito. O magari, avrebbe fatto un bel bagno caldo… Uno di quelli con i sali profumati e tanta schiuma. Ma oggi non poteva. No, oggi era il suo compleanno e i suoi genitori volevano festeggiarlo insieme alla loro amata figlia. Le avevano chiamato per dirle che sarebbero andati a trovarla, ma lei aveva creato dei limiti, delle barriere che aveva imposto alle poche persone che facevano ancora parte della sua vita. Una di quelle barriere impediva loro di entrare in casa sua. Non voleva che la gente vedesse le pareti bianche e spoglie, i divani ancora col celofan e gli scatoloni imballati. Non rifaceva mai il letto. Non c’era niente in frigo. Quella casa era vuota, come lei. Mille volte si era ripromessa di tinteggiare le pareti e di disfare gli valigie, ma non lo aveva mai fatto. La verità è che quella casa non le apparteneva, come non le apparteneva più la sua vita, perciò non vedeva la necessità di dedicarle il suo tempo. Così, disse ai suoi che sarebbe andata a trovarli lei. Detestava il suo compleanno. Eppure da piccola lo amava. Amava i palloncini rosa, i regali e la torta cioccolato e panna con i fiori di zucchero fatta in casa insieme alla sua mamma. La stessa casa dalla quale, adesso, non vedeva l’ora di fuggire. Si sentiva un’estranea in quel luogo. Ecco a cosa pensava mentre spegneva le 23 candeline sulla sua torta di compleanno. Quei pensieri la fecero rabbrividire a tal punto che si strinse forte il suo cardigan addosso. “ Spegni le candeline ed esprimi un desiderio tesoro!”. Voglio tornare a vivere.

    Si svegliò all'improvviso e sentì le lacrime rigarle il viso. Aveva sognato per l’ennesima volta quegli occhi. Quegli occhi intensi e profondi e immensamente tristi che ormai accompagnavano tutte le sue notti. Si preparò la colazione: caffè e pan di stelle. Quando viveva con lui, la mattina a colazione passava il tempo a staccare le stelline dai biscotti per disegnarne cuoricini sul tavolo della cucina. Ogni giorno lui la ringraziava, le sfiorava le labbra e poi scappava via. Non le mangiava mai. Sapeva quanto le piacevano. Sasha era fatto così, non poteva fare a meno di renderla felice. Non l’aveva mai più fatto da quando si era trasferita, da sola, nel nuovo appartamento. Adesso si limitava a guardarle. Mangiava due biscotti, beveva il suo caffè e andava a lavoro. Lavorava in una gelateria part-time. Era brava nel suo lavoro. Compiva ogni gesto meccanicamente, alla perfezione ormai. Arrivava in orario, indossava il suo grembiule azzurro, chiedeva con gentilezza ai clienti cosa desiderassero e li accontentava. Se per caso nasceva qualche problema, o sbagliava, chiedeva scusa e ricominciava. Finito il turno, appendeva il grembiule e tornava a casa. Si cambiava e andava al parco a correre, fino al molo, dove rimaneva seduta per ore a guardare il cielo. Poi tornava a casa, faceva una doccia calda, indossava il pigiama e, se trasmettevano qualche programma interessante in tv, lo guardava. Altrimenti leggeva. Amava i libri e ciò era un bene perché quando si immergeva nelle storie altrui dimenticava la sua per un po’. Spesso rimaneva sveglia fino a tardi. Non riusciva mai a prendere sonno. I pensieri le si affollavano nella testa impedendole di rilassarsi e, quando accadeva, sognava quegli occhi e si svegliava di soprassalto. Da cinque anni ormai, ogni giorno si ripeteva uguale. Per 365 giorni all’anno non faceva altro che questo, senza alcuna eccezione. La sua noiosa routine le dava scurezza e ciò le bastava.

    Era un’artista. Amava i colori. Amava dipingere. Amava ciò che dipingeva. Amava il modo in cui i colori erano capaci di trasmettere emozioni. Amava rimanere immobile ore ed ore in cerca dell'ispirazione, per poi scoprire che sarebbe arrivata sempre quando meno se lo aspettava. E allora, ovunque si trovasse o qualunque cosa stesse facendo, lasciava perdere tutto e correva in quel piccolo stanzino bianco, che lei amava definire il suo studio, a fare l'unica cosa che secondo lei valeva la pena di fare: creare opere d'arte. Perchè era proprio questo che faceva: trasformava tele bianche in meravigliose esplosioni di sfumature e sensazioni. Un giorno, mentre dipingeva l'alba nella loro camera da letto, Sasha, assonnacchiato, le aveva detto: "Quando finalmente ti deciderai a esporre le tue opere non dovrai più condurre questa vita"."Io adoro questa vita", aveva risposto lei. Era vero. Abitavano in un appartamento piccolissimo in periferia e la loro vita era difficile. Sia lei che lui lavoravano, ma lo stipendio di Sasha bastava a mala pena per pagare i suoi studi universitari. Era lei che, ad appena diciotto anni, manteneva tutti e due. Ma a lei non pesava. Non aveva molto tempo per dipingere, ma non gliene faceva una colpa. Non l'aveva mai fatto e non avrebbe di certo cominciato adesso. Non aveva fretta di esporli in qualche galleria. Non aveva paura della critica, solo, le sembrava che quei quadri mettessero a nudo la sua anima, che fossero troppo intimi per essere mostrati al mondo.

    Era magra. Terribilmente magra. Non perchè, come tante delle sue coetanee, stesse seguendo una dieta, ma perchè, semplicemente, dimenticava di mangiare. Forse era quello il motivo per cui, quel giorno, svenne. Correva nel parco, poi, improvvisamente, senti mancare le forze. Riprese conoscenza solo quando senti la voce di una bambina che chiamava il suo papà. Aprì gli occhi e la vide. Un paio d'occhi nocciola grandi e curiosi la fissavano preoccupati. I lunghi boccoli castani le facevano il solletico sul viso. Avrebbe voluto rassicurarla ma non riuscì a rispondere. Le parole le si bloccavano in gola. Quegli occhi... Somigliavano straordinariamente agli occhi che sognava tutte le notti. Strinse le palpebre più forte che potè. "E' solo un sogno, un altro stupido sogno" pensò. Ma quando le riaprì un altro paio d'occhi la fissavano preoccupati. Appartenevano all' uomo bellissimo che le stava di fianco. Provò una fitta al cuore. "Sta bene?", le chiese. No, non stava bene. Sentiva che tutte le emozioni che aveva soffocato fino a quel giorno stavano prendendo il sopravvento su di lei. Si alzò, e fece l'unica cosa che sapeva fare in quelle occasioni: fuggire via da esse. Ma più si allontanava da quei due estrnei più la fitta al cuore aumentava, come se esso fosse legato a loro da un sottilissimo filo invisibile. Si sentiva stupida. Non le era mai importato di ciò che pensava la gente, ma si fermo e tornò indietro. "Mi dispiace di essere scappata. Devo essere svenuta, ma adesso sto bene. Grazie per avermi soccorsa.". "Non c'è di che. Io sono Evan e lei e Febe, mia figlia." La bambina le rivolse un sorriso timido. L'avrò spaventata, pensò. Come rassicurarla? Le erano sempre piaciuti i bambini, ma parlare con loro riapriva le sue ferite, così aveva smesso di giocare con i figli dei vicini e con i bambini del parco. "Ciao Febe. Ti va un gelato?". " Al cioccolato!", rispose la piccola. "E' il mio preferito.". Mentre camminavano si chiese perchè si stesse comportando in quel modo con due perfetti sconosciuti. L'avevano aiutata, questo è vero, ma ciò non giustificava comunque il suo comportamento. Presero due coni e una coppetta al cioccolato. Uno con panna e smarties sopra. Non poteva fare a meno dei colori, nemmeno sul gelato. Un disperato tentativo di dare un pò d'allegria alla sua grigia esistenza. Si sedettero su una panchina al parco e parlarono del più e del meno. Rimaserò così fino a che non fece buio. Evan era un uomo attraente e il modo in cui si esprimeva avrebbe reso interessante persino l'argomento più noioso al mondo, il modo in cui ascoltava le risposte alle sue domande faceva sembrare interessante persino la sua monotona vita. E Febe poi... Febe era di gran lunga la bambina più dolce che avesse mai incontrato. Non riusciva a capire il vero motivo del perchè quei due sconosciuti sgretolavano tutte le barriere che aveva innalzato con tanta fatica. Sapeva che qualcosa in lei stava cambiando. Sentiva dentro l'agitarsi di mille tormeti. E non poteva fare a meno di provare paura. Ma in quel momento non voleva pensarci. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva bene, e voleva solo godersi quegli attimi di serenità.

    Quei due estranei erano entrati nella sua vita per caso e lei, anche se ancora non lo sapeva, li amava già dal primo momento in cui aveva incontrato i loro occhi.

    Nei giorni seguenti si recò spesso al parco, senza la sua tuta. Non aveva più fretta di scappare. Adesso aveva qualcuno per cui restare. Trascorreva ore ed ore in loro compagnia. Amava giocare con Febe. Amava parlare con Evan. "Sua madre ci ha lasciati quando lei aveva appena 3 anni." Le disse lui un giorno. "Non immagini quanto sia stato difficile crescerla da solo. Non capisci mai quanto sia difficile essere un genitore finchè non lo diventi. Piangeva, voleva la sua mamma. Ero distrutto anch'io, lei mancava anche a me. Non avevo idea di come crescere una bambina e non volevo farlo da solo. Ma ho imparato a mettere le sue necessità davanti alle mie. Ho imparato a cambiare pannolini, cucinare pappette, sterilizzare biberon, lavare vestitini e preparare zainetti. Ho passato notti intere a cullarla per farle capire che io non l'avrei mai abbandonata, mentre i ragazzi della mia età uscivano a divertirsi e si ubriacavano nei pub. Ho organizzato feste di compleanno, giocato con le bambole, fatto bolle di sapone. L'ho vista fare i suoi primi passi, ho visto cadere il suo primo dentino, l'ho accompagnata al suo primo giorno d'asilo. E più il tempo passava più mi rendevo conto che lei, l'evento inaspettato della mia vita, dava senso ai miei giorni. Era il motivo per cui tornavo a casa, era il motivo per cui lavoravo, era il motivo della mia felicità. Lei, piccola e fragile creatura, era diventata la mia ragione di vita.". Pronunciò quelle parole con lentezza, come per assaporarle.

    Le fecero male. Quelle parole le fecero maledettamente male. Quelle parole la fecero pensare al suo bambino. Adesso lo desiderava. Lo desiderava come si desiderano le cose che non tornano più. Desiderava quel bambino che non avrebbe mai più potuto avere. Desiderava quel paio d'occhi innocenti. Desiderava che quegli occhi vedessero i colori che lei tanto amava. Desiderava essere madre del figlio di Sasha. Desiderava l'uomo della sua vita, che lei aveva ingannato e abbandonato. Desiderava avere una famiglia con lui, la sua famiglia. Ma non avrebbe potuto più avere niente di tutto ciò, e la colpa era solo sua.Così, quella notte, pianse. Pianse lacrime amare. Pianse lacrime di dolore. Pianse per tutto quello che aveva perso in quegli anni. Pianse per la sua solitudine. Pianse per quella casa vuota. Pianse fino a che, esausta non si addormentò. Sognò gli occhi di sempre, e poi sognò gli occhi di Febe, di quella dolce bambina di cinque anni che le aveva sconvolto la vita senza saperlo. Sognò l'amore della sua vita. E poi sognò Evan. E improvvisamente capì. Adesso tutto aveva senso. Quei due estranei erano la possibilità di essere felice che, cinque anni prima, aveva bussato alla sua porta e che lei aveva rifiutato, pagando a caro prezzo la sua decisione. Forse Dio era stato buono con lei, aveva capito quanto rimpiangesse i suoi errori e le aveva regalato un'altra occasione per ricominciare. Anche se non sarebbe mai riuscita a dimenticare, ne valeva la pena. Doveva essere così.

    Il giorno seguente, si svegliò di buon umore. Chiamò il suo datore di lavoro e chiese un permesso. In cinque anni, non aveva mai saltato un solo giorno di lavoro, non era mai nemmeno andata in ferie, perciò la sua richiesta fu accolta senza nessun problema. Decise che era ora di mettere ordine nella sua vita. Cominciò dalla casa, era giunto il momento di renderla vivibile. Ritinteggiò le pareti di bianco e appese i quadri preferiti di Sasha, quelli che lei aveva dipinto quando abitavano insieme. La sua casa era diventata una piccola galleria d'arte. Rifece il letto, disfò le valigie e aprì gli scatoloni. Dentro, vi trovò i cuscini di tantissimi colori e fantasie che lei e sasha avevano fatto realizzare a mano con le stoffe comprate durante il loro viaggio in Oriente. Era il 'viaggio dei maggiorenni'. L'avevano chiamato così perchè era il suo primo viaggio da quando aveva compiuto diciotto anni. Lo aveva ricevuto in regalo dai suoi genitori. Quando lei, appena diciottene, era scappata di casa per seguire il ragazzo che diceva d'amare, avevano interrotto ogni tipo di rapporto. Poi, quando lui si presentò davanti alla loro casa, chiedendo loro di riappacificarsi alla figlia, che sentiva terribilmente la loro mancanza, non seppero dire di no e in segno di riconciliazione le regalarono i biglietti aerei. Ma lei, che da sempre amava viaggiare, sembrava come svuotata di ogni entusiasmo. Niente più riusciva a sorprenderla. Tuttavia, di quel viaggio, erano rimaste delle foto in cui si riusciva a cogliere un barlume di gioia nei suoi occhi. Le prese e le guardò attentamente. Decise che le avrebbe conservate in un album. Negli scatoloni c'erano anche dei biglietti da visita. " Ne avrai bisogno, quando capirai di essere una vera artista." Così c'era scritto sul retro.Riconobbe la calligrafia di Sasha. Se ne convinse. Era un'artista. Avrebbe fatto quelle telefonate, sperando che non fosse troppo tardi. Chiamò anche i suoi genitori e li invitò in casa sua. Erano anni che non conversavano davvero. Poi toccò ai suoi vecchi amici. Alcuni di loro non li sentiva da moltissimo tempo. Aveva paura che il loro rapporto si fosse ormai perso, invece, scoprì che legami forti come l'amicizia, non si spezzano col tempo. Lasciò per ultimo il compito più difficile. Scrisse una lettera. "Sasha, mi dispiace. Mi dispiace di aver atteso così tanto prima di scriverti. Mi dispiace di essere andata via senza darti una spiegazione. Avrei potuto dirti che non ti amavo più. Bugia. Avrei potuto dirti che faceva troppo male viverti accanto. Bugia. Avrei potuto inventare altre mille scuse. Tutte bugie. Non avevo nulla da dirti che non fossero bugie. La verità era troppo difficile da confessare. La verità è che me ne sono andata perchè è difficile nascondere una bugia a chi si ama ed io l'ho fatto per troppo tempo. Avevo paura che mi avresti odiato. Ma credo tu abbia il diritto di sapere." Raccontò tutta la verità su ciò che aveva fatto. Raccontò di quegli anni lontana da lui. Raccontò di Febe ed Evan e di come l'avessero cambiata. "Spero troverai, un giorno, la forza di perdonarmi."

    Non ricevette mai risposta.

    Evan quel pomeriggio era turbato, erano settimane che lei non andava al parco e non rispondeva ai messaggi e il cellulare era sempre staccato, cosi lasciò il lavoro prima del previsto e si diresse verso il molo. Sperava di incontrarla. Un giorno lei gli aveva detto che quello era il suo posto preferito. La vide immediatamente. Aveva dei palloncini in mano. Rimase impietrito dalla sua bellezza. Il vento giocava con i suoi lunghi capelli castani e con il suo lungo vestito bianco. Sembrava una bambina. “ Viene qui ogni giorno. A volte compra dei palloncini e poi rimane lì seduta per delle ore.” gli disse 'l’uomo dei palloncini'. Entrambi la osservavano mentre lei lasciava andare i palloncini colorati che, spinti dal vento, volavano sempre più in alto, perdendosi fra le nuvole. Ogni volta, era uno spettacolo bellissimo.

    “ Perché?” le chiese qualcuno alle sue spalle. Non ebbe bisogno di girarsi. Riconobbe immediatamente quella voce. “Sono sicura che avrebbe amato i colori di questo mondo come li amo io.” La voce le tremava. "Verde, speranza e invidia. Rosso, amore e rabbia. Viola, ansia. Blu, armonia e generosità. Nero, tristezza. Grigio, noia e dolore. Giallo, invidia e paura. Arancione, allegria. Bianco, indecisione. E' l'unico modo che conosco per regalargli le emozioni che per colpa mia non saprà mai provare." Le faceva male parlarne. " Avrebbe avuto la stessa età di Febe. Avrebbe avuto i suoi occhi nocciola. I miei occhi nocciola. Gli occhi nocciola di Sasha. Avevo poco più di diciotto anni. Immaginavo che i miei problemi più grandi sarebbero stati cosa avrei fatto della mia vita, dove avrei vissuto, che avrei fatto per mantenere me e la mia passione, che luoghi avrei visitato. Mi sentivo finalmente così vicina alla libertà che non volevo pensare alle conseguenze che essa avrebbe comportato, alle responsabilità, ai doveri. L'unica cosa di cui ero sicura, era che per tutta la vita avrei amato solo lui, il bambino di cui mi ero innamorata già all'età di sei anni e con il quale ero cresciuta, il mio migliore amico, il mio confidente, l'amore della mia vita, Sasha. Ma ho commesso un errore. Ero troppo piccola, avevo troppi sogni nel cassetto, per rinunciarvi. Volevo dipingere. Volevo vedere il mondo . E lui voleva studiare. Voleva fare l’architetto. Voleva, un giorno, poter costruire edifici grandiosi in tutto il mondo. Ci amavamo. Ci amavamo davvero, ma non volevamo diventare genitori, non ancora. Non volevamo rinunciare a tutti i nostri progetti per un impiego che ci avrebbe permesso a malapena di sopravvivere e che avremmo detestato. Saremmo finiti con l’odiarci. Eppure, nessuno dei due riusciva a pensare di poterlo fare davvero. Ci saremmo odiati ancora di più per quell’orribile gesto. Mi chiese di sposarlo e di trasferirmi da lui. Mi promise che ce la saremmo cavata. Ma era già difficile in due. Così mentii. Gli dissi di aver perso il nostro bambino. Abortii. Mi amava ed io amavo lui, ma non riuscivo a guardarlo negli occhi. Avevo paura che vi leggesse dentro la verità. Era straziante vivere accanto a lui, ma ci provai. Provai a far finta che non fosse successo nulla. Viaggiammo, continuammo la nostra vita insieme. Finchè il peso di quella bugia non fu insopportabile. Non riuscivo ad andare avanti. Così, semplicemente, smisi di farlo. Un giorno, presi la valigia, misi dentro solo poche cose, e lasciai quella casa piena di ricordi insopportabili. Lasciai quell’amore che non riuscivo più a vivere. Lui non mi fermò. Provava ciò che provavo io, ma non mi avrebbe mai lasciato. Così toccò a me farlo. Toccò a me liberare, almeno lui, da quelle catene che lo imprigionavano a me, e lasciarlo libero di vivere. Quando ami qualcuno, desideri solo la sua felicità , non importa dove egli la trovi. Da quel momento, ho vissuto con questo enorme peso dentro. Fino ad ora. Non avrei mai pensato di poter ricominciare a vivere. Poi ho conosciuto te e Febe.” Lui non parlò. Le parole non lo avrebbero aiutato a farle capire ciò che voleva esprimere. Le prese la mano e stettero così, insieme a guardare un cielo non più così grigio, un cielo colorato di speranze.
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