Due vite in memoria

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  1. VoceDalCuore
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    Da bambina l’unica cosa che mi faceva provare gioia era correre. Correvo a braccia aperte, come fossi un aeroplano, con il vento che soffiando leggero scompigliava i miei lunghi capelli ricci sciolti, lungo le strade periferiche di Herera, la mia città natale.
    L’ingenuità mi guidava entro i luoghi più sconfinati della mia immaginazione: ciò che i miei occhi vedevano la mente trasformava a seconda del momentaneo guizzo di fantasia. Non attraversavo a piedi nudi strade sterrate, ai cui margini si estendevano decine e decine di baracche in legno, alternate a bancarelle semi-vuote di alimenti oramai andati a male, in pieno processo di putrefazione. No. Avevo deciso di escludere la realtà dal mio mondo. I pensieri, spinti dall’energia del mio esile corpo in movimento mi conducevano attraverso una vita parallela in cui tutto era come avevo sempre desiderato fosse: rotolavo lungo enormi distese di prato sulle quali fiorivano timidi i primi germogli primaverili, sotto un cielo azzurro, privo di quell’alone grigio di tristezza.
    Amavo correre perché amavo immaginare di essere felice.
    Abitavo un quadrato di terreno limitato da tre muri alti circa due metri, coperti in alto da un ampio telo che fungeva da tetto e da quarta parete mancante.
    Non era la casa nella quale avrei voluto trascorrere la mia infanzia, ma almeno le basi erano state costruite, in prevalenza, da mattoni, un solido riparo nelle poche giornate di pioggia in Africa.
    Lo spazio non costituiva un reale problema: la cucina può non servire in assenza di qualcosa da mangiare che richiede cottura e il soggiorno diventa una stanza vana e vuota se non si possiedono mobili e divani con il quale arredarla.
    Io mi accontentavo del poco materiale che avevo: per soddisfare le mie mancanze ricorrevo al portale dei sogni.
    Ho avuto la sfortuna, se così la si può definire, di essere nata nello Zimbabwe, uno tra i Paesi più poveri al mondo, ma ciò mi ha permesso di ottenere la capacità di essere emotivamente “invincibile” perché quando si è coscienti dei limiti che la vita impone, non esiste niente che possa fare più paura di questi stessi, ed io ho imparato a convincerci.



    Mia madre era una donna bellissima. Aveva lunghi capelli scuri e mossi, un po’ come i miei, carnagione mulatta, piccola, ma proporzionata statura e lineamenti del viso così delicati da sembrare, agli occhi della gente, un’adolescente, non una donna.
    Ha scelto di imboccare la via della prostituzione per necessità: la mia minuscola corporatura, a causa di una prematura nascita, richiedeva una quantità di latte che le sue mammelle, come unica fonte di sostentamento, non erano in grado di soddisfare.
    Ha scelto di sacrificare la sua vita nella speranza di poter dare un futuro alla mia.
    Li ho persi a causa dell’aids. I miei genitori sono volati in paradiso, o almeno cosi mi piace credere, quando avevo solo sei anni. Ero troppo piccola per restare sola, troppo ingenua per difendermi dalle ingiustizie del mondo e troppo fragile per smettere di essere amata.
    Amavo i miei genitori, come si ama la mattina di Natale, o il sole che ti sveglia al mattino e la luna che ti sorveglia durante la notte.
    Di mia madre adoravo la dolcezza con la quale mi districava i capelli prima di mettermi al letto, la stessa con la quale dopo mi cantava lunghe ninna-nanne e l’amore con il quale mi nutriva. Ho sempre pensato che sia stato quest’ultimo a salvarmi.
    Mio padre morì pochi mesi dopo mia madre, ma era andato via con lei molto tempo prima. La malattia li aveva uniti proprio come aveva fatto l’amore, quest’ultimo però, gli aveva permesso di compiere il loro ultimo viaggio insieme, impossibilitati dal vivere l’uno lontano dall’altra.
    Era il tipico uomo africano: energico nel corpo e nello spirito, nonostante la mancanza di acqua e il duro lavoro dei campi.
    Spesso mi assale nitido il ricordo dei suoi abbracci, delle infinite volte in cui sollevandomi e tenendomi stretta tra le braccia mi faceva volare sempre più in alto, e di tutte quelle in cui la sera, tornando da una lunga giornata di lavoro, ancora stanco e sudato, mi offriva soddisfatto un pezzo di quel pane cosi duramente guadagnato: gli si illuminavano gli occhi quando mi vedeva saltellare felice ,quasi avessi ricevuto una barretta di cioccolata.
    Ai miei occhi l’immagine dei miei genitori appare sbiadita, come una fotografia cancellata dal trascorrere incessante del tempo eppure i loro gesti sono cosi vivi da poterli percepire ancora oggi sulla pelle.

    Le giornate all'orfanotrofio si susseguivano identiche, scandite da precisi intervalli ricreativi e di intrattenimento, come le note di una canzone che si ripete sempre con lo stesso ritmo.Ogni giorno era una copia gemella del precedente e la mia vita sembrava finalmente aver ripreso una forma definita, conferitale dalla ripetitività e quotidianità degli eventi.
    L'istituto non era fisicamente ospitale: le pareti un tempo bianche avevano assunto, col passare degli anni, un colorito giallastro,l'erba del piccolo giardino era incolta e l'odore che si respirava all'interno della struttura era acre,come se le finestre non fossero mai state aperte per lasciar passare un filo d'aria fresca.
    Ovunque voltassi lo sguardo vedevo qualcuno, poco importava se si trattasse di una figura adulta ,quale quella di una delle tre o quattro suore che ci accudivano, o di un bambino: era la loro presenza a rincuorarmi.
    Quando i miei occhi si soffermavano su tutto ciò che mi circondava sentivo un senso di pienezza, come se avessi colmato il desiderio di trovare una casa; era dentro di me che avevo paura di guardare perchè in fondo sapevo che le suore non erano i miei genitori e i bimbi non erano miei fratelli: quella non era casa mia e non lo sarebbe mai stata.
    Per tutto il tempo della mia permanenza in orfanotrofio mi sono sempre sentita come una bussola senza ago: ero consapevole di dover iniziare a dare di nuovo un senso a tutto, ma non avevo gli strumenti per farlo:mi ero smarrita e non riuscivo più a trovare una qualsiasi direzione da percorrere.
    Mi domandavo spesso, guardando le faccie allegre e sorridenti dei miei compagni d'avventura,come loro riuscissero a saltellare sul prato tra urla e sonore risate, quasi indifferenti al fatto di essere state vittime dell'ingiustizia dello stesso mondo che gli aveva dato la vita.
    Mi considerai stupida quando non molto tempo dopo seppi dare una risposta ai miei dubbi: il dolore non si dimentica, eppure loro, forse più di me, avevano imparato a convinverci, per impedire a quest'ultimo di privare ancora di momenti felici la loro adolescenza.
    Io invece, silenziosa e solitaria, impiegavo la maggior parte del mio tempo giocando con una bambola di pezza dai capelli scuri e mossi e dagli occhi nero-bottone. L'avevo chiamata Bejide perchè mi ricordava mamma. Amavo credere che ovunque lei si trovasse sapesse che in ogni mio pensiero si rispecchiava il suo volto e che mi proteggesse allo stesso modo di cui io mi prendevo cura della mia bimba di pezza.
    L'orfanotrofio mi cambiò dapprima in ciò che di me era più visibile: la fisionomia. I pasti caldi e sicuramente più nutrienti di quelli a cui ero stata abituata permisero alle mie guancie di riempirsi di carne e colore e al mio stomaco, libero del gonfiore dei digiuni, di impossessarsi gelosamente delle proteine e dei carboidrati contenuti nelle zuppe di riso e legumi.
    Rimasi "ospite" dell'istituto per circa un anno, fin quando una coppia di sposi, stranamente in viaggio di nozze nel mio Paese, non decise di adottarmi.
    Era una torrida giornata di agosto quando li conobbi. Ricordo solo che non appena suor Mercy mi chiamò per scendere in sala visite pensai che finalmente i colori dell'estate avrebbero dipinto la mia vita,che avrei visto il mare o la montagna, che avrei avuto una casa e magari un cane, che poi sarei andata a scuola...
    I pensieri smisero di vagare frettolosamente nella mia testa non appena li vidi. Erano decisamente diversi da come li avevo immaginati: la loro pelle, seppure abbronzata, era di parecchie tonalità più chiara della mia e i loro abiti, sicuramente alla moda, avevano colori accessi, riflesso della loro giovane età.
    Anna era una donna di una bellezza mediterranea. Aveva lunghissimi capelli mori e grandi occhi castani con i quali comunicava la voglia di stringermi a sè. Corsi, come mai avevo fatto, e mi gettai tra le sue braccia che, senza tradire la mia fiducia, mi sollevarono e mi avvolsero. Marco si limitò a baciarmi dolcemente la mano, prima di stringere entrambe in un caloroso abbraccio.
    Non so perchè tra venticinque bambini abbiano scelto proprio me: mi piace pensare che ognuno di noi abbia colmato nell'altro il desiderio di trovare la figura mancante della propria vita, e che abbia cercato di ricomporre un puzzle, dal nome "famiglia".

    La prima volta che vidi la mia nuova casa strofinai le mani sugli occhi per accertarmi che la vista non mi fosse repentinamente venuta meno durante l'interminabile viaggio dallo Zimbabwe sino in Italia.
    Il giardino sconfinato e ornato da molteplici varietà di piante faceva da sfondo a quella che sarebbe diventata la mia definitiva abitazione. Non furono i due piani a stupirmi, ma la sua estenzione e la quantità di camere che la costituivano: c'erano 4 camere da letto, di cui la mia già accessoriata di scrivania, televisore e giochi vari,3 bagni, la cucina, il soggiorno ed anche la palestra.
    Posso affermare con certezza che non fu per niente difficile ambientarmi in un luogo così curato: chiunque si sarebbe sentito a proprio agio.
    I primi giorni di scuola furono imbarazzanti. Era snervante percepire lo sguardo di tutti gli altri bambini su di me: ero consapevole che la mia pelle e il mio accento inglese avrebbero richiamato l'attenzione, ma mi feriva il fatto di essere considerata diversa.
    Tuttavia riuscii presto a trovare una mio personale ordine: feci subito amicizia con alcune stravaganti bambine e mi diedi parecchio da fare per imparare l'italiano.
    Per anni ho vissuto così, amata e rispettata, in una casa incantevole e senza nessuna mancanza materiale. Non mi rendevo conto di quanto avevo perchè per me era tutto una scoperta, dall'acqua calda della doccia alla bicicletta ricevuta per la promozione, dal grembiule a scuola alle "Nike" rosa ai piedi.
    Il mio nuovo mondo non aveva più bisogno dell'immaginazione:ciò che gli occhi vedevano la mente riconosceva e i sensi apprezzavano. Ebbene si, non mi mancava niente.
    Pensavo spesso ai miei genitori naturali, custodendo gelosamente tutti i ricordi che mi legavano a loro. Questa casa, questo cielo, questa realtà: avrei tanto voluto che loro ne facessero parte perchè avrebbero meritato anche solo un pizzico di felicità dopo tutti i sacrifici che hanno fatto per me.
    Ho tutt'ora il presentimento di aver vissuto due esistenze in una, come se per me il destino abbia fatto un'eccezione, donandomi la possibilità di condurre due vite diverse in un'unico filone temporale.
    Sono stata figlia due volte: la prima di una donna che nonostante la povertà e la miseria ha deciso di mettermi al mondo per potermi amare incondizionatamente, e la seconda di una ragazza che mi ha strappato ad una vita di infelicità e mi ha permesso di averne una normale, senza vuoti materiali nè sentimentali.
    Sono stata cittadina di due terre completamente diverse, in una delle quali crescevano altissimi e fieri alberi di bambù e palme, su uno strato di terra e sabbia dorata.
    E sono stata bambina. Una bambina che come Mary Poppins ha portato nella sua valigia tutta la sua creatività e la sua inventiva, prima di acquistare il biglietto di un'aereo che avrebbe decollato sulla pista dell'adolescenza e della maturità.

    In occasione del mio diciottesimo compleanno ho chiesto ad Anna e Marco di non organizzare alcuna festa vistosa ed eccentrica in discoteche o locali alla moda, ma di regalarmi la possibilità di andare a far visita ai miei genitori, in Africa.
    Per un brevissimo istante di tempo ho percepito il panico nei loro occhi, che solo in un secondo momento, umidi e inteneriti dalla mia richiesta, hanno dato cenno di approvazione.
    Ebbene si, esattamente il giorno successivo al compimento del mio diciottesimo anno di vita, ero già in volo alla ricerca delle mie origini, alla scoperta della mia terra,con l'ineffabile certezza che questo viaggio avrebbe dato delle risposte a remoti interrogativi.
    Non appena arrivata mi sono diretta in quell'unico luogo in cui mi sono sempre voluta trovare dopo la morte dei miei genitori e nel quale non sono mai stata portata.
    Il cimitero era deserto: ero completamente sola,non tenendo ovviamente in considerazione le migliaia di anime che stavano lì, silenziose, a tenermi compagnia.
    Mi ci volle un ora piena per trovare le croci di legno sulle quali erano incisi i nomi dei miei familiari, e nn appena le ebbi davanti agli occhi, la tensione si sciolse e lasciò spazio ad un'improvvisa,inaspettata e profonda commozione.
    Mi sedetti sulla nuda terra che ricopriva i loro corpi e gli parlai, come se realmente fossero in grado di sentirmi. Parlai loro della mia vita dall'orfonatrofio in poi, di Anna e di Marco e della loro disponibilità nel prendersi cura di me come una figlia, di tutti i momenti che loro si erano persi e di come io mi sentissi persa dopo la loro assenza.
    Rimasi così, immobile, fino a quando non ebbi più parole da pronunciare, fino a quando quel maledetto nodo tornò a cingermi la gola e l'emozione diede sfogo alla sofferenza repressa.
    Pensavo di essere stata la causa della loro morte, ma forse la mia nascita anticipata, dalla quale deriva il mio nome, "khadija", può essere interpretata come un dono, che mi ha consentito di godere della presenza dei miei genitori trenta soli di più.
    La mia vita è stata tutta una corsa. Ho avuto fretta nel nascere, ho dovuto imparare a crescere in fretta per trovare una guida in me stessa e tutt'ora vado di fretta, correndo sulle strade asfaltate della mia città con le scarpe sportive ai piedi, immaginando di realizzare i miei sogni sconfinati e ancora irraggiungibili.
    se c'è una cosa che ho imparato dalla mie esperienze è che la vita è semplicemente frutto di un gesto d'amore, del quale io non sono mai stata privata. Sono stata amata, lo sono tutt'ora.L'ago della mia bussola è finalmente orientato verso la felicità.
     
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5 replies since 6/5/2012, 17:12   56 views
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