LEGGENDE DI NAPOLI

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    Dai miei sogni

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    I mari di Napoli

    Quando il Signore ebbe dato a noi il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda gli fa dire: uditelo voi anima glaciale e cuore inerte.
    Egli disse: Sii felice per quello che t' ho dato; e se non lo puoi, se l'incurabile dolore ti strazia l'anima, muori nelle onde glauche del mare.
    Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e, magnifico Signore, ha guardato sempre, con un occhio di predilezione, la città di Napoli.
    Per lei ha avuto, tutte le carezze di un padre, di un innamorato, le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare.
    Le ha dato il cielo ridente ed aperto, raramente turbato da quei funesti pensieri scioglientisi in lagrime, che sono le nubi; l'aria leggera, benefica e vivificante, che mai non diventa troppo rude, troppo tagliente; le colline verdi, macchiate di case bianche e gialle, divise dai giardini sempre fioriti; il vulcano fiammeggiante ed appassionato; gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti ed innamorati; le donne piacenti, brune, amabili e virtuose; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti.
    Poi, per suggellare tanta grazia, le ha dato il mare. Ma si soggiunge che il Signore Iddio dandole il mare, ha saputo quel che si faceva.
    Quello che sarebbero i Napoletani, quello che vorrebbero, egli conosceva bene, e nel dar loro la felicità del mare, ha pensato alla felicità di ognuno. Questo immenso dono è saggio, è profondo, è caratteristico. Ogni bisogno, ogni inclinazione, ogni pensiero, ogni fibra, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s'appaga: il suo piccolo mare nel grande mare.
    Del passato, dell'antichissimo passato, è il mare del Carmine poco distante dalla spiaggia, è l'antica porta di mare, che introduce alla piazza; sulla piazza storicamente famosa, si eleva il bruno campanile, coi suoi quattro ordini a finestruole, che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo grandioso di un bimbo gigante; le casupole, attorno, sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate da gente minuta.
    Il mare del Carmine è scuro, sempre agitato, continuamente tormentato. Sulla spiaggia, semideserta, non vi è l'ombra di un pescatore.
    Vi si profila qua e là la linea curva di una chiglia; la barca è arrovesciata, si asciuga al sole. Dinanzi alla garitta passeggia un doganiere, che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impetuoso. Presso la riva una barcaccia nera, stenta a mantenersi in equilibrio; dal ponte, per mezzo di tavole, è stabilita una comunicazione con la terra; vi vanno e vengono facchini, curvi sotto i mattoni rossi che scaricano a riva. Ma non si canta, nè si grida. Il mare del Carmine non scherza. In un temporale d'estate, portò via un piccolo stabilimento di bagni; in un temporale d'inverno allagò la Villa del Popolo, giardino infelice, dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici. Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira. Il mare del Carmine era l'antico porto di Parthenope, dove approdavano le galee fenicie, greche e romane, ma era porto mal sicuro; esso ha visto avvenimenti sanguinosi e feste popolari. E un mare storico, poetico e cupo. Sulla piazza che quasi esso lambiva, dieci, venti volte sono state decise le sorti del popolo napoletano. Le onde sue melanconiche hanno dovuto mormorare per molto tempo: Corradino, Corradino. Le onde sue tempestose, hanno dovuto ruggire per molto tempo: Masaniello, Masaniello. E il mare grandioso e triste degli antichi, che sgomenta le coscienze piccine dei moderni. La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi regna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito vi passeggia, curvando il capo sotto il peso dei ricordi, fissando l'occhio sulla vita di quelli che furono. Ma ferve la gente e ferve la vita sul mare del Molo. Non è spiaggia, è porto quieto e profondo. L'acqua non ha onde, appena s'increspa; è nera, a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto, dove nulla si riflette. Sulla superficie galleggiano pezzi di legno, brandelli di gomene, ciabatte sformate e sorci morti. Nel porto mercantile si stringono, l'una contro l'altra, le barcacce, gli schooners, i brigantini carichi di grano, di farina, di carbone, d'indaco; non vi è che una piccola linea d'acqua sporca, tra essi. Sul marciapiede una gru eleva nell'aria il suo unico braccio di ferro, che s'alza e s'abbassa, con uno stridore di lima. Uomini neri di sole, di fatica e di fumo, vanno, vengono e discendono. Un puzzo di catrame è nell'aria. Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono infissi cannoni a cui s'attorcigliano intorno grossissime gomene, che danno una sicurezza maggiore ai vapori postali, ancorati in rada.
    A destra c'è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco, dove rimangono immobili le corazzate. Dappertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarcazioni pesanti; le voci si chiamano, si rispondono, s'incrociano. Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di carbone, atomi di cotone, limature di ferro; la sera, l'occhio del faro sorveglia il Molo. Il mare del Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccendati, dei marinai adusti, degli ufficiali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d'affari che partono senza un rimpianto. E' per essi, che il Signore ha fatto il lago nero del Molo.
    Del popolo e pel popolo é il Mare di Santa Lucia.
    E' un mare azzurro cupo, calmo e sicuro. Una numerosa e brulicante colonia di popolani, vive su quella riva. Le donne vendono lo spassatiempo, l'acqua sulfurea, i polipi cotti nell'acqua marina; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano, fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mare, cantano e dormono. E un paesaggio acceso e vivace. Le linee vi sono dure e salienti; il sole ardente vi spacca le pietre. Si odora un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte. I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella via e cascano nell'acqua, risalgono alla superficie, scotendo il capo ricciuto e gridando di gioia. Sulla riva un'osteria lunga, mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi, dall'argenteria brillante. Di sera vi s'imbandiscono le cene napoletane. Suonatori ambulanti di violino, di chitarra, di flauto improvvisano concerti; cantatori affiochiti si lamentano nelle malinconiche canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave, o la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso e di sforzato, che cela il dolore; accattoni mormorano senza fine la loro preghiera; le donne strillano la loro merce. D' estate un vaporetto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, i barcaiuoli offrono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il passaggio fino al vaporetto. Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini piccoli e variopinti; si asciugano al sole, battute dal ponente, le lenzuola; le bagnine hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio con la mano. Una folla borghese e provinciale assedia gli stabilimenti, scricchiolano le viottole di legno. Salgono nell'aria serena, canti, suoni di chitarra, trilli d'organino, strilli di bimbi, bestemmie di facchini, rotolio di trams, profumi e cattivi odori; rifulgono i colori rabbiosi e mordenti; fiammeggiano le albe riflesse sul mare; fiammeggiano i meriggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare; s'incendiano i tramonti sanguigni, riflessi sul mare che pare di sangue. E' il mare del popolo, mare laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vive e con cui vive il popolo napoletano.
    Eppure a breve distanza, tutto cangia d'aspetto. Dalla strada larga e deserta, si vede il mare del Chiatamone la vista si estende per quel vastissimo piano, si estende quasi all'infinito, poiché è lontanissima la curva dell'orizzonte. Quel piano d'acqua è desolato, è grigio. Nulla vi è d'azzurro e la medesima serenità ha qualche cosa di solitario che rattrista. Le onde si frangono contro il muraglione di piperno con un rumore sordo e cupo, lontano, gli alcioni bianchi bianchi ne lambiscono le creste spumanti. A sinistra s'eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi, a finestrelle ferrate; il castello spaventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio. Contro le sue basi di scoglio, le onde s'irritano, si slanciano piene di collera e ricadono bianche e livide di rabbia impotente. Quando le nuvole s'addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i platani della villetta, allora la desolazione è completa, è profonda. Di lontano appare una linea nera: è una nave sconosciuta, che fugge verso paesi ignoti. Alla sera passa lentamente qualche barca misteriosa che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che mette una striscia rossa nel palpito del mare: sono pescatori che incantano il pesce. In quelle acque un giovanotto nuotatore, bello e gagliardo, vinto dalle onde, invano ha, chiamato aiuto ed è morto affogato; in una notte d'inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è slanciata in mare, donde l' hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto. E' il mare del Nord, con la sua mestizia, la sua vastità, deserta, i suoi scogli lacerati, il metro piangente dell'onda; è il mare del Nord coi suoi fantasmi, con le sue nebulosità.
    E` il mare che Dio ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, per i nostalgici, per gl'innamorati dell'infinito.
    Invece ride il mare di Mergellina; ride nella luce rosea delle giornate stupende; ride nelle morbide notti d'estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimi fili d'argento; ride nelle vele bianche delle sue navicelle, che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia. Sulla riva scorre la fontana, con un cheto e allegro mormorio; i fanciulli e le fantesche in abito succinto vengono a riempir le loro brocche. Un yacht elegante dall'attrezzeria sottile come un merletto, dalle velette candide orlate di rosso, si culla mollemente come una creola indolente, porta il nome a lettere d'oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale e bionda: Flavia.
    Uno stabilimento di bagni, piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola; sulla viottola passano le belle fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, cogli ombrellini dai colori splendidi che si accendono al sole; passano le sposine giovanette, gaie e fresche, attaccate al braccio dello sposo innamorato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo. E nel mare, giù è un ridere, uno scherzare, un gridio fra il comico spavento e l'allegria dell'acqua fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia rotonde che si sollevano e volti bruni dai capelli bagnati. E' la festa di Mergellina, di Mergellina la sorridente, fatta per coloro cui allieta la gioventù, cui fiorisce la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano, fatta per coloro cui la vita e una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sempre vive e profumate.
    Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posillipo, il glauco mare che prende tutte le tinte, che si adorna di tutte le bellezze. Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il paradiso, esso lo realizza. E`l'armonia del cielo, delle stelle, della luce, dei colori, l'armonia del firmamento con la natura: mare e terra. Si sfogliano i fiori sulla sponda, canta l'acqua penetrando nelle grotte, l'orizzonte è tutto un sorriso. Posillipo è l'altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell'avvenire; Posillipo è tutta la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può volere. Posillipo è l'immagine della felicità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà. E' la vita vibrante, fremente, nervosa e lenta, placida ed attiva. E' il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia. Il mare di Posillipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gl'innamorati di quell'ideale che informa e trasforma l'esistenza.

    da "Leggende napoletane" di Matilde Serao

     
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  2. Tea
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    Ma che bello Greff, GRAZIE :wub: non lo avevo mai letto.
     
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    Dai miei sogni

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    hai visto che bello? :flowers: ne ho trovate altre se ti interessano le inserisco
     
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  4. Tea
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    Si, SI :lettore:
     
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  5. mafi2
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    molto bella...SmileyCentral.com
     
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    Dai miei sogni

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    (...) Man mano che ci avvicinavamo a Napoli, l'atmosfera si faceva sempre più pura; ormai ci trovavamo davvero in un'altra terra. Le case dai tetti piatti ci annunziano la diversità del cielo, anche se all'interno non devono essere molto comode. Tutti sciamano per la strada, tutti siedono al sole finchè non cessa di splendere. Il napoletano è convinto di avere per sé il paradiso e si fa un'idea ben triste delle terre del settentrione (...).
    Si dica o si racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città con i suoi dintorni, i castelli, le ville! Al tramonto andammo a visitare la grotta di Posillipo, nel momento in cui dall'altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno! (...)
    Se nessun napoletano vuole andarsene dalla sua città, se i poeti celebrano in grandiose iperboli l'incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvi nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole. (...)
    (da "Viaggio in Italia" di J.W. Goethe)
     
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  7. Tea
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    Com'è cambiata la mia bella città :cry:
     
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    Dai miei sogni

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    " 'o Munaciello":
    Il personaggio più noto, piu' nominato e piu' temuto ma anche amato dai napoletani, è "'o Munaciello".
    Chi è " o' Munaciello"?: è una sorta di spiritello bizzarro e dispettoso che si comporta sempre in modo imprevedibile e sul quale sono sorte infinite leggende metropolitane e detti popolari.
    E' così vasta la testimonianza che riguarda questa simpatica "entità" che non vi è posto per nessun dubbio sulle sue "manifestazioni", che spesso sono oggetto di vivaci discussioni su come "onorare" questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi.
    Scalzo, scheletrico, lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, in genere fanciulle procaci e allegre, dello spavento provato; In questo caso non bisogna rivelare a nessuno l'episodio, pena l'accanimento del Munaciello nei loro confronti.
    Sulla sua origine sono sorte diverse leggende ,una delle quali è quella di credere che "'o Munaciello"fosse il soprannome dato a un bimbo,molto malato, nato intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese.
    Si racconta infatti che la bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si era innamorata di un bel giovane, Stefano Mariconda,che faceva un garzone.
    L'amore tra i due, ovviamente, fu contrastato e quando Stefano muore misteriosamente assassinato nel luogo dove lui e Caterinella si incontravano segretamente, la giovane innamorata affranta da dolore si rinchiude in un convento e da lì a pochi mesi da' alla luce un bimbo.
    Le suore del convento adottano il bimbo e lo crescono, vestendolo con abiti che loro stesse cucivano, abiti simili a quelli monacali con un cappuccio, questo , pare , per mascherare le deformita' di cui il ragazzo soffriva.
    Fu così che per le strade di Napoli veniva chiamato " 'o munaciello" e per la sua vivacità ,malgrado la malattia e la deformità, gli venivano attribuiti poteri magici . Anche lui morì misteriosamente e da allora le varie leggende,che oggi tutti i napoletani conoscono, che raccontano e c'è chi ci crede ancora, andarono via via sviluppandosi.
     
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  9. Tea
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    Questo lo conoscevo ho vari libri su fenomeni "particolari" che riguardano la mia città. :D
     
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    Parthenope

    Viveva, un tempo, sulle coste ioniche della Grecia, una bellissima fanciulla di nome Parthenope, che in greco antico vuol dire vergine.
    Per la sua grande bellezza veniva addirittura paragonata alle dee Giunone e Minerva; aveva una bella fronte regolare, grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, carnagione candida e un corpo dalle forme armoniose.
    Amava sedersi sugli scogli e guardare il mare, sognando e fantasticando di terre lontane, sconosciute.
    Cimone ne era innamorato e lei lo ricambiava, ma suo padre l'aveva promessa ad Eumeo e ostacolava in ogni modo il loro amore.
    Un giorno Cimone le chiese di fuggire lontano per potersi amare liberamente ed ella acconsentì ad abbandonare la sua terra e le amate sorelle.
    Dopo un viaggio lunghissimo i due innamorati approdarono finalmente sul lido che li aspetta già da mille anni e con il loro amore nascono i fiori, fioriscono milioni di nuove piccole vite.
    La terra nata per l'amore, che senza amore è destinata a perire, bruciata e distrutta dal suo stesso desiderio splende ora rigogliosa.
    Dalla Grecia giunsero, per amore di lei, il padre e le sorelle, amici e parenti che vennero a ritrovarla; la voce si sparse dovunque, fino al lontano Egitto, fino alla Fenicia, dovunque si raccontava di una spiaggia felice dove la vita trascorreva beatissima tra il profumo dei fiori e dei frutti e nella dolcezza profumata dell'aria.
    Su fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano con loro i propri figli, le immagini degli dei, gli averi.
    Si costruiscono capanne, prima sulle alture e a mano a mano fino in pianura; sorge un'altra colonia su una collina accanto e il secondo villaggio si unisce col primo; si tracciano le vie, fioriscono le botteghe degli artigiani, si costruiscono le mura.
    Sorgono due templi dedicati alle protettrici della città : Cerere e Venere.
    Parthenope è ormai donna e madre di dodici figli, è la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente, da lei si appella la città, da lei la legge, da lei il costume, da lei il costante esempio della fede e della pietà.
    Una pace profonda e costante è nel popolo su cui regna Parthenope, la più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato, il più grande dei sentimenti, quello dell'arte; la fusione dell'armonia fisica con l'armonia morale è l'ambiente vivificante della nuova città.

    da "Leggende napoletane" di Matilde Serao
     
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    Il Palazzo Donn'Anna

    Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l'onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte , larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette l'arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe.

    Di notte il palazzo diventa nero, intensamente nero; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malinconici d'amore e le monotone note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue volte fragoreggia l'onda marina.

    Ogni tanto par di vedere un lumivino passare lentamente nelle sue sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre; ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato lì un buon covo,ma la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un tetto, ma noi ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per compatirlo. E forse sono fantasmi e noi sorridiamo e desideriamo che ciò sia; noi li amiamo i fantasmi, noi viviamo con essi, noi sogniamo per essi, noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi sul mare, per le colline, sulle rocce, nelle chiese tetre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche sale dove il medioevo ha vissuto.

    Fu una sera,e splendevano di luce vivida quelle finestre; attorno il palazzo, si cullavano sul mare barchette di piacere, adorne di velluti che si bagnavano nell'acqua, vagamente illuminate da lampioncini colorati, coronate di fiori alla poppa; i barcaiuoli si pavoneggiavano nelle ricche livree. Tutta la nobiltà napoletana, tutta la nobiltà spagnuola accorreva ad una delle magnifiche feste che l'altiera Donna Anna Carafa, moglie del duce di Medina Coeli, dava nel suo palazzo di Posillipo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla collana d'oro, dalle bacchette d'ebano: giungevano continuamente le bellissime signore, dagli strascichi di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sorgeva come pistillo di fiore la testa graziosa, dai monili di perle, dai brillanti che cadevano sui busti attillati e seducenti; giungevano accompagnate dai mariti, dai fratelli e qualcheduna, più ardita, solamente dall'amante. Nella grande sala, sulla soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d'argento, con un lieve sorriso sulla bocca, il cui grosso labbro inferiore s'avanzava quasi di spregio,

    inchinando appena il fiero capo alle donne, dando la mano da baciare ai cavalieri Grandi di Spagna di prima classe come lei, stava Donna Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio, dal lampo d'acciaio, simile a quello dell'aquila, rivelava l'interna soddisfazione di quell'anima fatta di orgoglio: ella godeva, godeva senza fine nel veder venire a lei tutti gli omaggi, tutti gli ossequi, tutte le adulazioni. Era la più nobile, la più potente, la più ricca, la più rispettata, la più temuta, lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh, poteva salire gloriosa i due scalini che facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito dell'ambizione appagata che le soffiava in volto. Le dame sedevano intorno a lei, facendole corona, minori tutte di lei: ella era sola, maggiore, unica.

    In fondo al grande salone era rizzato un teatrino, destinato per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati doveva dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a quella di una danza moresca; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la grande curiosità della rappresentazione era che gli attori, per una moda venuta allora di Francia, appartenessero alla nobiltà. Donn'Anna Carafa di Medina disprezzava i facili costumi francesi che corrompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatrice dei cuori e apprezzatrice del favore popolare com'era, s'accorgeva che quelle molli usanze piacevano ed erano adottate con trasporto. Solo per questo ella aveva consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna, sostenesse una parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati, dai neri capelli, le cui trecce le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella commedia la parte di schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto e lo serve fedelmente fino a fargli da mezzana d'amore, sino a morire per lui di un colpo di pugnale, destinato al cavaliere da un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tal impeto, che tutta la sala si commuoveva, allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuovevano salvo Gaetano di Casapesenna che recitava la parte del cavaliere ed egli, freddo, indifferente, inconscio, non faceva che rimanere fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine delle commedia, quando la sventurata Mirza, ferita a morte, s'accomiatava con parole d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora, egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abbandona in ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d'agonia. Invero egli fu così focoso di tale slancio, così patetica ed improntata di dolore la sua voce, così disordinato ogni suo gesto, che veramente parve superiore ad ogni vero attore e parve che la verità animasse il suo spirito, sino al punto che la sala intiera scoppiò in applausi. Sola, sul trono, tra le sue gemme, sotto la sua corona ducale, Donn'Anna impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra. Non era la più amata.

    Le due donne si incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guardavano, Donna Mercede fremente di gelosia, l'occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima aborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda Donn'Anna; agitata e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade e altere parole. Ma se la gelosia scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro:

    - Le donne di Spagna sono esse le prime ad abbandonarsi all'amata - diceva Donn'Anna, con la sua voce dura e grave.

    - Le donne si Napoli si gloriano del numero degli amanti - rispondeva vivamente Donna Mercede.

    - Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede.

    - Voi lo foste, Donn'Anna.

    - Voi obliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci il vostro amore a spettacolo, Donna Mercede.

    - Voi tradiste il Duca di Medinacoeli, mio nobile zio, Donn'Anna.

    - Voi amate ancora Gaetano Casapesenna.

    - Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna.

    Vinceva la bollente spagnuola e Donn'Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio glaciale della duchessa, contro cui si infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn'Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo. La duchessa agonizzava, sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che alla scomparve d'un tratto dal palazzo Medinacoeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa quell'anima e delle lunghe eterne giornate, passate in ginocchio dinanzi al Sacramento e del fervore della preghiera e delle lagrime ardenti:ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno, dove era il convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene.

    Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario. Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?

    Il Palazzo Donn'Anna".di Matilde Serao
     
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